Diagnosi non invasiva per bambini in età scolare
La diagnosi è il tentativo di classificare una serie di fenomeni (sintomi) al fine di identificare il tipo di disagio (malattia) e stabilire di conseguenza le classi di intervento possibili.
È anche un utile strumento quando occorre comunicare sinteticamente questa conoscenza.
Tuttavia la diagnosi è anche un'etichetta che tende ad appiccicarsi alla persona, rendendola non più un insieme multiforme di aspetti diversi, ma un'entità riconducibile esclusivamente a questa stigmatizzazione.
Il pazzo, l'alcolista, il sieropositivo, l'ansioso, il depresso, sono tutte identità che tendono spesso a marchiare le persone, schiacciandole sotto il peso dello stesso disagio che sperimentano. Ovviamente questo non può che peggiorare la prognosi, riducendo la probabilità che queste persone riescano a superare le loro difficoltà.
Per evitare questo pericolo, il processo diagnostico può utilizzare un certo numero di accorgimenti.
La diagnosi psicologica è un resoconto complesso, che tende a decrivere il disagio del paziente in termini estesi, tenendo conto di variabili riconducibili sia alla persona che al contesto nel quale il disagio si esprime.
Si contrappone ad essa la diagnosi psichiatrica, che tende invece alla sintesi, racchiudendo il disagio in un disturbo, attribuibile alla persona che ne diventa portatrice e causa.
Tutte e due le diagnosi, sebbene con impatti diversi, hanno lo svantaggio di etichettare l'individuo.
Sia affermare che una persona ha un disturbo d'ansia, che dire che questa medesima persona sperimenta emozioni ansiose a certe condizioni e in taluni contesti, produce quindi un risultato comunque svantaggioso.
Nel caso specifico dei minori, pensiamo occorra maggior cautela e un differrente approccio che dovrebbe rientrare all'interno di una diagnosi di tipo non invasivo.
Pensiamo all'effetto che ha su un bambino in età scolare l'essere diagnosticato con un disturbo da deficit e iperattività o anche più genericamente come bambino difficile.
L'etichetta "bambino con problemi" tende ad attaccarglisi addosso e chi gli sta intorno (insegnanti, compagni, genitori) comincia a trattarlo diversamente, in maniera conforme all'etichetta che da quel momento racchiuderà la sua personalità.
E' questa la base del cosiddetto "effetto pigmalione": una volta definito 'problematico', gli insegnanti, i genitori e i compagni, tenderanno a trattarlo diversamente dagli altri. Questo trattamento differenziato verrà assimilato dal bambino che a sua volta tenderà a giudicarsi e comportarsi in linea con esso. Si creeranno così le condizioni per cui la iniziale etichettatura tenderà a concretizzarsi: una profezia che si autoavvera.
Per evitare questo rischio, è necessario che il bambino non venga identificato con il disagio che vive. D'altra parte, se comunque c'è una difficoltà, occorre comunque riconoscerla per approntare le necessarie contromisure.
Serve cioè 'analizzare' il bambino, fargli delle domande, capire con lui cosa non va: questi tentativi a volte sono di per se stessi un'etichettatura, e il bambino tende a riconoscerla come tale.
Pensiamo al caso in cui il bambino viene 'portato dallo psicologo'.
Questa azione è già sufficiente a fargli dedurre che ha un problema. Le persone intorno a lui che ne verranno a conoscenza automaticamednte si faranno la stessa idea.
E questo getta le basi che pongono in essere l'effetto pigmalione.
La soluzione che abbiamo trovato è quella di utilizzare un contesto familiare al bambino invece di quello più stigmatizzante della seduta con lo psicologo.
Visto che le difficoltà scolastiche spesso si accompagnano al disagio, e che è divenuta consuetudine prendere lezioni private quando si è carenti in determinate materie, abbiamo pensato di utilizzare le ripetizioni come ambito durante il quale condurre una valutazione psicologica.
Lo psicologo esperto in ripetizioni è una figura che unisce le competenze specifiche dello psicologo (specializzato nella valutazione in età evolutiva) con quelle dell'insegnante che impartisce ripetizioni.
I vantaggi di questo connubio sono su due fronti:
il primo è che si evita il pericolo di etichettatura legato alla diagnosi, garantendo che il disagio, se presente, possa essere gestito senza che le comunicazioni in merito ad esso pongano le basi per l'effetto pigmalione; il secondo è che le lacune e le difficoltà legate all'apprendimento e ai compiti possano essere comunque gestite nello stesso contesto.
La diagnosi è unita all'intervento, nel senso che una volta identificato il disagio, le stesse ripetizioni possono essere almeno un primo tentativo per intervenire.
Se un bambino ha un'insicurezza di base, tenderà ad esempio ad evitare i compiti, o ad affrontarli con eccessivo sforzo (ad esempio tentando di memorizzare invece di comprendere).
Una volta messo a fuoco questo meccanismo, le ripetizioni potranno cercare di porre rimedio aiutando ad esempio il bambino a riorganizzare il proprio metodo di studio nel senso di sforzarsi meno di memorizzare, lasciando il tempo per meglio comprendere i concetti.
Nello stesso tempo supporterà il bambino rispetto alla preoccupazione di non saper rispondere alle domande dell'insegnante, di fare brutta figura, o di sentirsi fallito se riceve un brutto voto.
Complessivamente questi sforzi produrranno non solo un miglioramento della performance scolastica, ma avranno anche un effetto di cambiamento sull'insicurezza di base.
Altre pillole
aut.sanitaria n.124 del 06/08/02